Introduzione: una serata inaspettata all’Opera
Giovedì 9 ottobre, il Collegio ha offerto a quattro studenti la possibilità di visionare uno spettacolo al Teatro dell’Opera di Roma, il Teatro Costanzi. Per il nostro gruppo era la prima volta in un teatro così imponente. Dobbiamo ammettere che l’idea dell’opera non ci aveva mai attratte particolarmente; la immaginavamo come qualcosa di distante, antico, quasi “ingessato”. Mai ci saremmo aspettate di trovarci di fronte a una rappresentazione così potente, capace di parlare contemporaneamente di guerra, violenza e maternità, scuotendo ogni preconcetto.
Che cos’è Adriana Mater? Una trama che affronta il presente
L’opera che abbiamo visto è una creazione moderna, una prima rappresentazione italiana che unisce la musica della compositrice finlandese Kaija Saariaho, una delle figure più importanti della musica contemporanea, e il libretto in francese di Amin Maalouf.
La storia si svolge in un Paese non identificato, devastato da una guerra civile la cui atmosfera evoca i conflitti balcanici degli anni ’90. La protagonista, Adriana, viene violentata da un soldato, Tsargo, e rimane incinta. Sua sorella Refka, terrorizzata dallo stigma sociale e dal peso psicologico di quella maternità, la spinge ad abortire. Ma Adriana, con un atto di coraggio che è insieme gesto di libertà e resistenza, decide di tenere il bambino, Yonas.
Il vero fulcro dell’opera emerge quando Yonas, ormai cresciuto, scopre la verità sulle sue origini e si pone una domanda devastante:
“Sono figlio di mia madre o di mio padre?”, come a voler intendere: “Avrò ereditato le qualità di mia madre o la cattiveria di mio padre?”
Questo interrogativo non è solo personale, ma universale, e trasforma la vicenda in una sorta di tragedia greca moderna, una storia sulla natura del bene e del male, del destino e della libera scelta.
La messa in scena: uno spazio vuoto per emozioni piene
La regia di Peter Sellars ha contribuito a rendere questa tensione ancora più palpabile, spogliando la scena di ogni elemento superfluo. L’impatto visivo era essenziale e potentissimo, affidato a pochi elementi chiave:
- la scenografia minimale: il palco era dominato da spazi vuoti, illuminati da luci fredde che sottolineavano l’atmosfera cupa. La narrazione si affidava a simboli piuttosto che a oggetti concreti;
- la struttura del palco: i cantanti si muovevano su piattaforme quadrate, sovrastate da barre luminose a LED che cambiavano colore a seconda dell’intensità emotiva della scena;
- la posizione dell’orchestra e del coro: in una scelta insolita, l’orchestra era posizionata direttamente sul palco, alle spalle dei cantanti, e non nella tradizionale buca.
Questa scelta ha annullato la distanza tra gi spettatori e i protagonisti, tra il dramma e la musica stessa, rendendo l’orchestra un personaggio chiave della scena.
Questa regia essenziale, definita tecnicamente una “semi-scenografia”, ha reso la tensione emotiva immediata e tangibile. Anche per noi, che dovevamo seguire i sottotitoli per comprendere il libretto in francese, la forza visiva e musicale della messa in scena ha permesso di superare ogni barriera linguistica e di immergerci completamente nella storia.
La musica: una colonna sonora potente e impegnativa
L’esperienza di ascolto è stata impegnativa. La musica di Kaija Saariaho non offre melodie facili da canticchiare, ma è costruita su suoni pesanti che, all’inizio, hanno reso difficile seguire l’opera. Le recensioni specializzate definiscono la partitura “cinematica”, caratterizzata da un “umore cupo” (gloomy mood), da “interventi spettrali del coro” e da un “aggressivo sottofondo sonoro” che amplifica la tensione.
Nonostante la ‘sorpresa’ iniziale di questa musicalità insolita, è stato proprio questo mix di elementi sonori a renderci partecipi della sofferenza dei personaggi. La musica non era un semplice accompagnamento: l’aggressivo sottofondo sonoro e gli interventi spettrali del coro diventavano la voce stessa dell’angoscia dei personaggi, trascinandoci nel loro conflitto interiore senza via di scampo.
Un viaggio emotivo intenso e scomodo
Non possiamo dire che Adriana Mater ci abbia “divertite” nel senso leggero del termine. È stata un’esperienza intensa, a tratti scomoda, che richiede concentrazione ed emotività. Un’opera che non lascia indifferenti e che costringe a confrontarsi con domande difficili.
Uno dei momenti più indimenticabili è stato il duetto tra Adriana e il figlio Yonas. Sul palco non c’era quasi movimento: la tensione emotiva tra madre e figlio era affidata unicamente alle loro voci e all’orchestra. Era un momento di pura intensità drammatica, in cui il non detto pesava quanto le parole cantate, rendendo il conflitto tra i due personaggi quasi fisico.
La risoluzione della vicenda arriva quando Yonas, deciso a vendicarsi, trova finalmente suo padre. Tsargo, però, è un uomo invecchiato e cieco. Quella cecità diventa una metafora vivente della cecità del male stesso, e Yonas non riesce a compiere la sua vendetta. Il finale è racchiuso nelle parole di Adriana, che esprimono la morale profonda dell’opera: “Quell’uomo meritava di morire ma tu, figlio mio, non meritavi di diventare un assassino”.
Conclusione: l’Opera come specchio del nostro tempo
Adriana Mater, seppur con la sua unicità e le sue difficoltà, ha scardinato ogni nostro preconcetto sull’opera. Abbiamo scoperto che non è solo una forma d’arte legata al passato, ma un linguaggio capace di raccontare il presente con una forza straordinaria. La lezione più importante che abbiamo imparato è che anche il palco può essere un luogo in cui si affrontano i conflitti del nostro tempo, offrendo spunti di riflessione potenti e necessari.
Possiamo dire con onestà che torneremo all’opera, magari per vedere qualcosa di più “classico”. Ma lo faremo con una nuova consapevolezza: quella del potenziale immenso del teatro musicale come forma d’arte viva, attuale e capace di parlare direttamente alla nostra coscienza.
A cura di Gaia Palladino, Marica Pagliuca, Sofia Scaletta e Beatrice Castro, studentesse della Residenza G. Tovini di Roma