Sveglia all’alba, valigia che non vuole chiudersi e qualche turbolenza di troppo. E così siamo finiti a Paulista (Brasile) città nello stato del Pernambuco, che percorreremo a bordo di un “combe”.
Caricati i bagagli, dritti verso casa Mazza. Ancora decisamente spaesati, il tragitto dall’aeroporto a destinazione è rivelatore. Ci limitiamo a fissare fuori dal finestrino un paesaggio che cambia. Case fatiscenti su una sponda della strada fanno da controcanto a edifici imponenti che, qualche chilometro più in là, lasciano spazio all’oceano.
Non passa molto dalla partenza che il nostro furgoncino viene superato da un’auto. Nell’abitacolo si vede una famiglia numerosa: almeno cinque passeggeri. L’auto sfreccia più di quello che il motore potrebbe sostenere, tenuta insieme solo da qualche intervento fai-da-te e dalla necessità della famiglia che continui a camminare. Un po’ malconcia, si staglia contro le sagome dei grattacieli che brillano senza sforzo in lontananza.
Ci lasciamo alle spalle Recife abbastanza velocemente. Adesso siamo a Olinda (letteralmente in portoghese “o che bella!”), con un selciato tipicamente europeo sotto le ruote e palazzi di architettura coloniale del Settecento, sorprendentemente modesti nelle dimensioni, soprattutto dopo aver abituato l’occhio ai grattacieli, che dal finestrino del combe non si vedono mai per intero.
E tra una spiegazione e l’altra di Padre Eltom, manca adesso soltanto il tratto di strada per Paulista. Il silenzio ha la meglio. Un silenzio che sedimenta il ricordo di una giornata unica, ma che sembra non finire mai, tra interazioni imbarazzate in portoghese diventate per sbaglio conversazioni, paure e aspettative condivise, gratitudine per essere qui a fare esperienza di un angolino di mondo in cui forse mai saremmo finiti e che ha così tanto da offrire.
E tanta, tanta speranza, nel nostro piccolo, di ricambiare.
26 luglio 2023 – Giorno 3
Scarpe da ginnastica ai piedi, repellente antizanzare che misto alla crema solare tappa per settimane ogni poro della pelle, un po’ di olio di gomito che non abbiamo, e dritti a preparare Casa Melotto per la prossima riapertura.
All’entrata una parola, un’istituzione: humilitas. Tra lo stupore generale e un rinforzato senso di appartenenza, ci tiriamo su le maniche.
La catena di montaggio è infallibile. La prima tappa: spazzare per terra per rimuovere montagnette di polvere. Poi entra in gioco il secondo anello della catena. L’obiettivo? Rispazzare lo stesso angolino di pavimento trattato nel primo step ottenendo montagne delle stesse dimensioni, se non più alte. E infine…lo scrupolo: il fatidico terzo step che la mano esperta non si lascia sfuggire e che fa racimolare almeno altre due dita di polvere. Con la clausola che tutti e tre gli step siano eseguiti rigorosamente dalla stessa persona.
Ma non finisce qui. C’è anche chi strappa erbacce a mani nude, mentre si gode un po’ di brezza e sole brasileiri, chi ancora non si capacita di come siamo finiti dall’altra parte dell’emisfero, chi non vede l’ora di mettere le mani in pasta, chi ancora non si spiega la legge fisica per cui più si spazza più si sporca, chi si ostina a scovare nidi di formiche sapendo già che ne sarà sistematicamente terrorizzato; chi estirperebbe erbacce dei cortili di tutto il Nord Est del Brasile, se sa che alla fine lo aspetta un bicchiere di succo di mango. Tutti ruoli indispensabili a un corretto funzionamento della catena.
E tra una schiena che fa i capricci da un lato, una maglietta piena di erba che chiede pietà dall’altro, l’entusiasmo resta incrollabile: la certezza che qualcuno su quel banco che stiamo spolverando, in quelle aule che stiamo tirando a lucido (o quasi), si sentirà il benvenuto, accolto, protetto. La motivazione che Casa Melotto sarà quel posto sicuro che a così tanti bambini del Nord Est manca.
La motivazione che se alla parola “sicurezza” questi stessi bambini riusciranno, per associazione, ad accostare il verbo “imparare”, allora avremo già vinto. Tutte queste motivazioni ci danno la giusta spinta per continuare.
E il succhino al mango.
30 luglio 2023 – Giorno 7
Una moto che corre in bilico tra il binario di un treno e un fiume in secca.
Strade dissestate con pozze di fango e ciabatte per passarci dentro.
Aquiloni troppo pesanti per poter volare senza vento.
Fili di bandiere colorate appese tra una tettoia e quella accanto.
Case fin troppo piccole per starci in uno, ma mai troppo strette se si è in dieci.
La fatica di un lavoro che paga in orgoglio e poco altro,
La riconoscenza di non avere mai avuto fame,
La gratitudine di essere uomini,
In Brasile
Nella comunità carente di Joao Pessoa
Facendo esperienza di questo preciso angolo di mondo
Perché in quanto uomini possiamo contare su altri uomini,
Quando Dio conta solo su se stesso.
La fermezza del Sim alla domanda “sei felice”,
Ritratti a carboncino di una bambina ora cresciuta mentre accarezza la testa del padre.
La stessa mano che l’ha dipinta ora suona la chitarra: Alleluja.
18 agosto 2023 – Ritorno
Il Brasile è una bomba a orologeria a detonazione non istantanea.
L’esplosivo non deflagra immediatamente all’innesco. Prende il suo tempo, rilascia un po’ di energia a intermittenza, abbastanza da impedirci nelle nostre azioni quotidiane, da farci dubitare della legittimità delle nostre preoccupazioni, ma mai sufficiente a rivelare, una volta per tutte, le sue contraddizioni.
L’innesco? Potenzialmente qualunque cosa. Una passeggiata in solitaria in città. Sulla pelle solo la fragranza del bagnoschiuma, lavato via poco prima sotto l’acqua bollente della doccia. E l’acqua fredda, la protezione 50 e il repellente antizanzare, restano solo un caro ricordo di rituale brasiliano.
E poi ti giri e vedi villette a schiera in muratura, carreggiate solcate di strisce pedonali, interrotte solo da qualche segnale di stop qua e là. Detonazione: L’anarchia stradale di Paulista con un codice della strada da scrivere al volante è così lontana.
E poi ci sei tu, che cammini da solo. Hai selezionato appositamente una strada un po’ isolata e un orario non troppo frequentato, per poter sentire il rumore dei tuoi pensieri, dei privilegi che non sapevi di avere e che adesso sono diventati lampanti, finché la stessa solitudine motivo di gratitudine. Detonazione: Essere da soli e sentirsi al sicuro in Brasile sono due istanze che è difficile conciliare nella stessa frase.
La città è piccola, forse qualche migliaio di abitanti. Ma tu ti senti grande. D’altronde, come scrive Fernando Pessoa, sei della dimensione di quello che vedi. E tu hai visto il Brasile. Detonazione: perché proprio tu hai avuto l’opportunità di fare da testimone e partecipare in minima parte di questo spaccato di mondo? Quali sono state le congiunzioni astrali che hanno riservato a te un’esperienza che ti smargina i contorni delle cose, ti sposta i confini, ti trapianta permanentemente lenti a regolazione automatica che ridimensionano l’irrilevante e mettono a fuoco l’essenziale? Perché tu sì, e altri giovani, più brillanti, entusiasti e capaci di te no?
Ma d’altronde chiedersi il perché passa in secondo piano, quando si può rispondere al dunque. Privilegio assodato, come contribuire alla causa? Mantenere la propria individualità, perseguire i propri progetti in Italia rende obiettiva e autentica una risposta sola: “poco e male”. Se Intervenire efficacemente in prima persona e da vicino è difficile, un contributo a distanza diventa inimmaginabile.
Spero solo di non assuefarmi al rumore delle detonazioni. Spero che continui a lavorarmi da dentro, in modo discreto come ha fatto finora. E spero di dar voce a a quel Brasile che affina lo sguardo, insegna ad ascoltare, e instilla per sempre, che lo si voglia o meno, la gratitudine per un niente che in realtà è tutto.