Con piacere pubblichiamo questo bel racconto di Laura Canzian, ex allieva del Collegio Mazza di Padova: dalle medie al mondo del lavoro, passando per gli anni universitari, la vita in Collegio, l’esperienza del Cinemazza.
Un racconto che ci parla di quanto è preziosa la scuola, soprattutto nella sua dimensione di relazione con gli insegnanti, gli educatori, i compagni. Perché sono proprio queste relazioni che lasciano il segno nella vita di ognuno di noi.
[Il racconto è stato pubblicato in originale da Laura sul suo profilo Facebook www.facebook.com/laura.canzian.7]
LA PROFESSORESSA S.
Il perno di tutta questa storia è una donna. Si tratta della professoressa di Lettere che ho avuto alle scuole medie di Fontanelle, Giovanna S..
A lei, per varie ragioni, ho pensato davvero tanto nel corso degli anni.
Insegnante rigorosa, non dava troppa confidenza agli studenti e parlava poco di sé stessa in classe, ma si capiva che era interessata alle nostre vite e alle nostre storie e lo faceva con discrezione.
Io semplicemente la adoravo. Con lei scrivevo bei temi, intensi e fantasiosi, perché per me era un’insegnante molto stimolante. Ci tenevo tantissimo ad andare bene nelle sue materie perché, stimandola così tanto, reputavo il suo giudizio importante.
Ci insegnava anche ad essere delle brave persone: una volta, in tempi non sospetti, ci disse che non si capiva perché taluni dessero del lei a italiani sconosciuti o più anziani e del tu agli stranieri che avevano le stesse caratteristiche e si raccomandò che non facessimo mai queste differenze.
È una regola che ho seguito sempre.
IL CORSO DI EDUCAZIONE SESSUALE E L’OMBELICO
Avevo scelto il tempo prolungato e con la professoressa S. facemmo una serie di laboratori che, all’epoca, erano all’avanguardia. Ricordo, ad esempio, quello di educazione sessuale in seconda media.
Erano i primi anni ’90, di certe cose si parlava già a scuola, ma con poca convinzione. A noi, invece, fecero un corso di diverse lezioni, molto strutturato, con tanto di psicologa, ostetrica e ginecologa dell’azienda sanitaria. Ci spiegarono anatomia, mestruazioni, concepimento, polluzioni notturne e tutti gli annessi e connessi.
Noi eravamo così crudi sull’argomento che la domanda più ricorrente era come facessero i bambini a uscire dalla pancia della mamma. Quando la ginecologa lo spiegò, restammo piuttosto stupefatti, soprattutto i maschietti.
Io un po’ avevo intuito come funzionassero le cose, ma sono cresciuta in una famiglia in cui i miei genitori mi avevano assicurato che i bambini uscivano dall’ombelico; peraltro, da esso entrava in teoria anche l’acqua che ti faceva morire se ti fiondavi in mare o in piscina subito dopo aver mangiato (spiegazioni che mi fanno ancora guardare a questa innocua parte del mio corpo con molto sospetto).
Inoltre, quando da piccola chiesi a mia madre come si faceva a rimanere incinte, lei mi disse cose un po’ confuse, tipo che i bambini ad un certo punto crescono nelle pance delle donne come, che ne so, una cisti. Almeno, così mi pareva di aver capito. Tra l’altro mi preoccupai perché pensai: e se mi cresce il bambino quando non voglio? Le chiesi come mai allora le suore non rimanessero incinte e lei tagliò corto dicendomi: “Parché el Signor no vol!”. Chiuso il discorso.
Questo era un po’ il background comune.
Comunque, quello di educazione sessuale fu anche un corso di educazione ai sentimenti che cercava di aiutarci a superare certi tabù e che ci spiegava che tutto quello che ci stava succedendo in quegli anni era in fondo molto bello.
OMBRE ROSSE
La professoressa S. fu promotrice anche di un altro laboratorio per me fondamentale e cercherò di raccontarvi perché: quello di cinema.
Il pomeriggio ci riunivamo in una stanza piccola e buia della scuola con la televisione.
Ci fece vedere film pazzeschi, invitandoci a fare collegamenti e raffronti. Fra questi ricordo “Fra Diavolo” con Stanlio e Ollio e “Tempi moderni” di Chaplin: spiegò come la comicità potesse veicolare anche concetti molto seri. Analizzammo benissimo un film complicato per dei dodicenni come “Blade runner”.
Ma soprattutto ci fece conoscere “Ombre rosse”, di John Ford del 1939.
Ecco, questo film per me fu una folgorazione. Alla fine della visione, la S. invitò tutti noi a riflettere sulla scelta dei personaggi che c’erano in quella diligenza che attraversava il territorio degli Apache (la prostituta, il medico ubriacone, la donna incinta, il banchiere ladro, il fuorilegge…) e ci spiegò come quello costituisse un microcosmo. Sottolineò come quest’opera avesse alla fine voluto dare dignità alle figure più emarginate dal mondo. Sì, insomma era più di un western tradizionale.
Per dimostrarci che il cinema rappresenta sempre il suo tempo, la settimana successiva vedemmo un altro film: “Soldato blu”. Credo che se un insegnante lo proponesse oggi a degli alunni dodicenni si scatenerebbe il putiferio.
Anche in questo caso storia di indiani, ma girata nel 1970, c’era la guerra in Vietnam e la prospettiva del western tradizionale veniva ribaltata. Gli indiani erano le vittime. Dico che un professore oggi passerebbe dei guai perché “Soldato blu” contiene una delle sequenze più violente della storia del cinema, ovvero il massacro del villaggio indiano da parte dell’esercito americano.
Io fui scioccata e anche i miei compagni di classe (comunque ne uscimmo vivi e nessuno di noi, che mi risulti, è diventato un serial killer).
Dopo questa visione dissi alla professoressa che era vero che la prospettiva era cambiata, ma che “Ombre rosse” era un film a maggior ragione ancora più bello: perché sì Ford aveva rappresentato gli indiani come una minaccia, il mondo selvaggio a cui contrapporsi, ma il vero obiettivo del regista era mettere in luce le ingiustizie e le ipocrisie della società considerata “civilizzata” e per questo pensavo che fosse molto moderno per quei tempi, tanto quanto Soldato blu nei suoi.
Vedemmo poi anche “Un uomo chiamato cavallo”, “Il piccolo, grande uomo” e “Balla coi lupi”.
La S. in terza media ci lasciò. Si prese un anno di pausa per suoi motivi personali. Ce lo comunicò l’ultimo giorno di seconda media, dopo aver visto il film “L’ultimo dei mohicani”, di cui avevamo letto il libro.
Per me fu uno shock. Portai a termine le medie svogliatamente, a fatica, persi interesse per la scuola. Mi sentii abbandonata da quello che era il mio punto di riferimento di quegli anni, forse hanno contribuito pure gli ormoni. Gli insulsi corsi di orientamento per la scuola superiore in realtà mi disorientarono.
LE SUPERIORI, FUORI ORARIO, IL CINEMA TURRONI E “BRIAN DI NAZARETH”
Decisi di iscrivermi comunque al Classico, spinta anche dai miei fratelli.
Feci la quarta ginnasio così così, ma in quinta mi ripigliai. Non ero però più capace di scrivere bei temi. Mi riuscivano bene le traduzioni delle versioni e da questo trassi le mie soddisfazioni.
In prima liceo incontrai C.L., professore di Storia e Filosofia, che fu un altro insegnante che mi lasciò il segno e mi aprì la testa.
C’era però una cosa che non avevo mai smesso di fare dopo quel laboratorio di cinema. Continuai a vedere film.
A casa mia arrivò il videoregistratore, Oderzo aveva una buona videoteca (che purtroppo ha chiuso un anno fa), all’epoca la Rai, in particolare Rai 3, programmava belle opere, anche in prima serata. Qualche volta restavo alzata anche sino a notte inoltrata per guardare “Fuori orario”.
Avevo alcuni compagni di classe interessati anche loro al cinema. In particolare, ricordo Andrea che, con la sua intelligenza molto più brillante e vivace della mia, aveva gusti parecchio moderni e ci confrontavamo. Quando presi la patente cominciai a frequentare abbastanza assiduamente quella realtà meravigliosa che era e continua a essere il cineforum “Turroni” di Oderzo, dove vidi film d’autore contemporanei veramente stimolanti. Controllavo sempre se fra il pubblico c’era la professoressa S., che era di Oderzo, ma non la vidi mai.
Il cinema è legato a molti momenti significativi di quel periodo: uno su tutti, quando presi la mia prima, cocentissima delusione d’amore e piansi per tre giorni consecutivi, mio fratello Daniele, uomo di poche parole ma di molti gesti significativi, andò alla videoteca di Oderzo e noleggiò “Brian di Nazareth” dei Monty Python che ci guardammo insieme con gusto in cucina.
PADOVA, IL CINEMAZZA E “ULTIMO TANGO A PARIGI”
Andando a Padova fu tutto molto più semplice.
Lì era pieno di cinema, anche a prezzi modesti.
Ero al collegio “Don Nicola Mazza” che aveva fra le sue perle il Cinemazza, cineforum storico della città. Mi buttai nella commissione interna di studenti che lo organizzava. Fu un’esperienza unica.
Conobbi tante persone che amavano il cinema, incontrai anche quello che divenne il mio primo moroso, eravamo tutti molto amici e ci impegnammo tantissimo per quel cineforum (faccio solo alcuni nomi, mi perdonino quelli che non cito: Edo, Feli, Rita, Anna, Alfio, Tigran… ).
Andavamo spesso a vedere film assieme.
Il Cinemazza si avvaleva della collaborazione del Dipartimento di Spettacolo dell’Università di Padova. Con loro decidevamo i film da proiettare e poi dottorandi, professori e ricercatori venivano a presentarli e spiegarli. In quel contesto conobbi un’altra insegnante importante, Rosamaria Salvatore, che divenne la mia correlatrice di tesi quando decisi di laurearmi in Storia e Critica del cinema.
Rosamaria merita un approfondimento. Quando al Mazza, collegio cattolico ma molto liberale, decidemmo di proiettare una serie di film decisamente strong (ad esempio, “Ultimo tango a Parigi”, “Un tranquillo weekend di paura”, “La grande abbuffata”), fui convocata dalla direzione del collegio femminile. Non mi attaccarono, però mi fecero gentilmente capire che forse avevamo un po’ esagerato. La pellicola che li turbava particolarmente era “Ultimo tango a Parigi”, la più famosa, però io pensai: e se vedessero le altre? Difesi le nostre scelte e alla fine ci dissero ok.
Naturalmente nessuno degli alti vertici venne a quelle serate, però, il giovedì che proiettammo “L’ora di religione”, film di Bellocchio con bestemmia inclusa, si presentò don Francesco Massagrande, direttore e figura di massimo vertice del collegio. Gelammo: quell’opera sì era decisamente scottante su argomenti quali religione e chiesa. La Cei l’aveva stroncata. Fortunatamente quella volta a presentarla e spiegarla c’era Rosamaria, donna determinata, ma soprattutto molto intelligente, ovvero in grado di capire i contesti in cui si trovava senza ipocrisie. Massagrande vide il film, ascoltò Rosamaria, il dibattito che scaturì fra studenti perplessi e quelli a cui piacque, non ricordo se intervenne e se portò il suo punto di vista, ma, alla fine, si complimentò con noi per la scelta: disse che il film faceva riflettere e soprattutto apprezzò la relatrice.
Questo sancì definitivamente il mio rispetto per gli uomini e le donne di chiesa che il Mazza mi ha trasmesso.
LA TESI
Feci appunto la tesi, relatore Giorgio Tinazzi, correlatrice Rosamaria Salvatore, e finalmente ritrovai il piacere di scrivere. Mi ricordo che stetti un bel po’ davanti al computer con il file word bianco. Il giorno dopo cominciai a buttare giù il testo e non la finii più. Scrivevo sempre, sette giorni su sette, e questo per mesi. Mi venivano continuamente idee, ricontrollavo meticolosamente di aver scelto sempre le parole adatte, che la costruzione delle frasi fosse comprensibile anche spiegando riflessioni complesse, che tutto filasse concettualmente, che fosse leggibile e non banale. Alla fine di ogni capitolo ero sfibrata ma soddisfatta. Un giorno Rosamaria mi disse: “Adesso basta, ti devi anche laureare!”.
Lasciai per ultima l’introduzione, la parte più importante. Era maggio, ero seduta sulle scale fuori casa mia. Mi misi lì a pensare come potevo impostarla per sintetizzare quel lungo lavoro. Ad un certo punto mi fu tutto chiaro. Accesi il computer e la scrissi credo in un’ora.
Fu una bella tesi, ricevetti un sacco di complimenti, qualcuno di altri atenei mi chiese se gliela spedivo. Fui selezionata, insieme ad altri neolaureati, per partecipare a un festival di critica cinematografica ad Alessandria che si chiamava “Ring!”, dove ebbi il privilegio di ascoltare dal vivo un mito, ossia Morando Morandini, e Gianni Canova, che ci raccontò di come, nel 1994, riuscì a convincere Indro Montanelli, allora direttore del quotidiano “La Voce”, ad aprire la prima pagina del giornale con la notizia dell’uscita a Cannes di “Pulp fiction” (se ci penso, incredibile…), ma anche il piacere di assistere a uno spettacolo con Giovanni e Giacomo (mancava Aldo) che con molta simpatia e competenza parlarono delle loro passioni cinematografiche. Mi divertii moltissimo. Mi abbozzarono la proposta di dottorato, ma avrei dovuto pazientare un anno e io pazienza non ne avevo.
In più non mi sentivo all’altezza: conoscevo all’Università studenti cinefili con una cultura cinematografica molto più ampia della mia (e spesso questa categoria di persone fa molto sfoggio di ciò), mi intimorii e lasciai perdere.
DOPO L’UNIVERSITÀ
Cominciai quell’estate a collaborare con La Tribuna. Il cinema fu un po’ messo da parte. Feci una lezione ad alcuni studenti di Padova, collaborai per un anno con “Immagini in movimento”, la rassegna di cinema per i ragazzi della Mostra dell’illustrazione per l’infanzia di Sarmede (fu un’altra esperienza appagante perché all’estero si producono pellicole veramente meravigliose e profonde per i bambini e non è vero che loro non sono in grado di capirle, anzi… ), feci qualche lezione per l’Auser agli anziani dei paesi qui nei dintorni.
Ho frequentato, quando avevo tempo, soprattutto il Cinemazero di Pordenone.
TORNANDO ALLA PROFESSORESSA S.
Di questa storia mi rimane un desiderio insoddisfatto: non l’ho mai rivelata alla mia cara prof delle medie che ha dato inizio a tutto ciò. La incontrai un giorno alle poste di Oderzo, ma non mi fermai. Era un brutto periodo per me, non avevo voglia di raccontare nulla che mi riguardasse.
Col senno di poi mi dico: quanto sono stata deficiente.
Qualche anno dopo parlai con una professoressa che era un’altra istituzione della scuola media di Fontanelle. Le raccontai per sommi capi quello che ho scritto qui e le confidai che ero molto grata alla S. per quel germe che mi aveva instillato e che mi aveva dato molte soddisfazioni nella vita.
Lei mi disse: “Credo che le farebbe un immenso piacere che tu glielo raccontassi”.
PER CONCLUDERE…
Ecco, io spero che in un qualche modo questa storia arrivi alla mia prof.
Mi scuso se l’ho resa pubblica, ma penso che sia anche un’occasione per ribadire un concetto che dovrebbe essere scontato: l’importanza della scuola e degli insegnanti, soprattutto in questo periodo in cui il diritto all’Istruzione non viene negato, ma comunque è monco. Temo che questo toglierà a molti ragazzi quel bene prezioso che la scuola in tempi di normalità dà, ovvero l’opportunità di avere degli strumenti per interpretare la vita, di crearsi una personalità, un pensiero autonomo e, soprattutto, di superare quelle barriere culturali che sono, prima di tutto, barriere sociali, in particolare per chi vive in contesti famigliari e geografici difficili.
Poi la vita può prendere pieghe strane, a volte sbagliamo, altre volte non siamo veramente liberi di scegliere il nostro destino, soprattutto, devo dirlo, in questo Paese, e lo studio può sembrare tempo perso (figuriamoci quello così poco “monetizzabile” del cinema). Però, nonostante tutto, vale la pena continuare a difendere senza se e senza ma l’Istruzione pubblica.
Grazie professoressa S.: è lei che mi ha fatto capire per prima tutto ciò.