Ad un certo punto, alla ricerca del tuo posto nel mondo, ti renderai conto che non sei mai tu a fare un viaggio ma è il viaggio a fare te. O meglio, a ri-farti, daccapo.
Ciao, amici. Mi chiamo Leila e sono una studentessa al secondo anno di Laurea Magistrale in Strategie di Comunicazione residente presso il Job Campus. A marzo sono partita per Valencia, in Spagna, dove ho deciso di svolgere un tirocinio per tre mesi con il programma Erasmus+ Traineeship, e adesso, a pochi giorni dal mio ritorno a Padova, sono qui a parlarvi della mia esperienza.
Devo essere onesta: la favola che tutti raccontano, per me è stata un vero romanzo di formazione, pieno di prove e con una morale da leggere tra le righe di un testo non lineare.
Io e Valencia non siamo sempre andate d’accordo. Questione di priorità: io amo l’arte e girare per strade poco affollate; lei è moderna, irriverente e decisamente poco romantica. Il polmone verde dei giardini del Túria, che ossigena la città, è rinchiuso dal cemento del costato urbano. L’Oceanogràfic, l’acquario più grande d’Europa, è una scatola di sardine per pesci infelici. Nel resto della città, gli edifici sono davvero troppo alti. Non mi piace l’idea di tante piccole persone impilate le une sulle altre per recuperare spazio per il progresso. Non ho mai provato particolare simpatia per i grattacieli che si frappongono tra l’uomo e il sole, come se il calcestruzzo avesse bisogno della luce più delle ossa.
In bilico nella mia pila, guardavo una città che non era a mia misura. Detestavo che le grandi distanze divorassero il tempo così in fretta. Spesso le persone che ho conosciuto lì mi dicevano che amavano Valencia visto che non era grande come capitali quali Barcellona o Madrid, ed io non potevo che sentire una profonda nostalgia di Padova che, invece, mi calza a pennello, perché ogni percorso non sarà mai più lungo del raggio della mia bicicletta.
Per quello che riguarda il tirocinio che ho deciso di svolgere, la situazione non era migliore. Ho lavorato per 3 mesi nel reparto di content creation di una piccola azienda che si incaricava di erogazione di corsi di lingua online. Durante il colloquio, mi era stato promesso un incarico creativo di produzione di contenuti ed io ne ero estasiata, perché era da molto che desideravo applicare le conoscenze raccolte durante la mia carriera universitaria. Eppure, di creatività nemmeno l’ombra: svolgevo mansioni modulari e procedurali che seguivano una prassi ben precisa. Ogni giorno era uguale a quello precedente. Dunque, eccomi seduta alla scrivania del mio ufficio un giovedì pomeriggio a pensare alle Metamorfosi di Kafka, a compatire Gregor Samsa e a chiedermi se tutti gli scarafaggi che girano per Valencia (perché, sì, las cucarachas erano un altro bel problema della città) altro non fossero che persone costrette a svolgere lavori ripetitivi e privi di opportunità di crescita. Perchè l’essere può diventare umano solo se si ritrova a fare qualcosa in cui può metterci l’anima.
Durante il primo mese, inoltre, mi faceva spesso visita anche il tema della solitudine. In una città così grande ed eclettica, tutti si muovono, ballano, corrono, ma nessuno si ferma a parlare. Che aspettative avevo? Ero piombata nella quotidianità altrui nel bel mezzo del secondo semestre, contesto in cui i gruppi si erano già formati (per due volte!).
Ed eccolo qui, davanti a me, l’ostacolo della narrazione: il muro che tutti temono, a cui è appesa la prova da superare, elemento principe dei romanzi di formazione. Mi sono fermata, scoraggiata, a contemplare una parete che mi impediva di proseguire. Questo Erasmus non era come me lo ero immaginato. Ero in un appartamento fatiscente, in una città che mi disorientava, e senza conoscenze che potessero indicarmi la strada, svolgendo un lavoro che non mi rispecchiava.
“Non posso farcela.” Mi dicevo. “Sono solo umana”. E qui la realizzazione. Sono umana. I muri sono fatti di pietra e calce, ma noi umani siamo fatti di carne, ossa e tensione dinamica verso l’evoluzione.
Se il muro sta fermo, noi ci muoviamo. Possiamo imparare a scavalcarlo. Può servire allenamento, disciplina o, peggio ancora, pazienza, per imparare a salirci. Ma il bello di un muro alto è che, una volta sulla sommità, ci si può sedere ad ammirare il paesaggio.
Io sono stata molto fortunata, perché ho incontrato persone che volevano superare l’ostacolo assieme a me e, in un mese, eravamo tutti seduti sul muretto, a chiacchierare, ridere e a guardare la vita che scorreva placida.
Al fianco dei ragazzi che mi hanno accompagnato in questo viaggio, ho incontrato Valencia per la seconda volta e finalmente siamo diventate amiche. Una sera, durante una passeggiata all’interno della Ciutat de Les Arts i des Les Ciencies, ci siamo seduti a bordo di una delle piscine artificiali, ammirando un’opera dell’uomo fatta ad imitazione della natura: i valenciani camminano in mezzo ad un mare d’asfalto in cui affiorano un calamaro che divide la strada con il suo tentacolo gigante, una balena ed un pesce di vetro, come se fosse normale. Io, dopo tre mesi, mi immergo in quell’architettura futurista e mi accorgo di trattenere ogni volta il fiato. E i giardini del Tùria, esempio di umanità: l’uomo prosciuga un fiume e la terra lo perdona e gli regala un tappeto verde su cui riposarsi. E Cabanyal, infine, la zona marittima, dove le grandi costruzioni valenciane si inginocchiano a prendere il sole e la loro pelle si colora di viola, azzurro, verde, giallo.
All’inizio, mi spaventava che fosse una città così grande ma, con tanto spazio per crescere, alla fine sono diventata grande anche io.
Persino in ambito lavorativo la situazione è cambiata – infondo, il tirocinio serve anche a farti capire cosa non vuoi fare nella vita. Quello svolto da me, sebbene differisse così tanto dalle mie aspettative, è comunque stato, in qualche modo, l’ago della bussola: non solo ho acquisito abilità che arricchiscono il mio curriculum e che di mia sponte non avrei sviluppato, ma mi ha dato un’idea più concreta dei ruoli che si possono svolgere all’interno di una corporate. E, per quel che mi riguarda, credo che abbia contribuito ad affinare le mie skills di team working, aiutandomi a capire come gestire la collaborazione con i colleghi anche quando ci sono tempi stretti e un clima di tensione.
È necessario, talvolta, imparare ad adattarsi, perché le scarpe da trekking sono certamente meno belle di quelle eleganti con cui ci sentiamo così a nostro agio, ma sono necessarie per proseguire un viaggio.
Mi piacerebbe concludere questo racconto con la mia personale morale elaborata nel corso di questa breve parentesi valenciana.
C’è un momento, banalissimo e reale, che tutti avranno sperimentato almeno una volta nella vita: partire e dover tornare, tentare di rimettere nella valigia ciò con cui siete partiti, solo per notare, all’ultimo, che non entra più tutto. Si sono moltiplicati i miei effetti personali? È successo qualcosa alla valigia? Cos’ho acquistato che è talmente ingombrante?
Così, ogni volta, quando si viaggia, quello che ci portiamo dietro – il nostro bagaglio – cambia. Cresce. E a volte occorre far i conti con la realtà, perché non possiamo portarci dietro tutto. Non sempre. Peserebbe troppo. Durante un viaggio si prende tanto, ma si lascia sempre qualcosa.
Io, personalmente, lascio in Spagna: la paura della solitudine, le volte in cui non credo in me stessa, l’impazienza e la sfiducia nella mano invisibile che regola la vita, ed un pezzo del mio cuore.
E ho messo in valigia, prima ancora che tutti i vestiti con cui sono partita, una scatola di fiducia in me e nel mondo, e qualche consapevolezza. Che gli sconosciuti possono diventare casa. Che la differenza tra me e l’altro non è una sottrazione, ma un’addizione. Che il futuro arriva quando lasciamo la porta aperta. Che ogni luogo è accogliente se apri le finestre per far entrare la luce del sole.
E che i viaggiatori sono figli della stessa fame di vita: si assomigliano tutte le persone che mangiano chilometri a colazione. Hanno tutti la faccia segnata da una ruga di saggezza che se la guardi bene è un sorriso, e che ci insegna che, molto spesso, ciò che ci rende felici ci increspa.
Leila Hassan