
Era poco più di un anno fa, ma me lo ricordo come se fosse ieri. Contesto: prima sessione invernale, primi esami, primi mesi lontano da casa. Tra una sessione di studio e l’altra, apro le mail distrattamente… è stato là che l’ho visto. Il mio primo trenta. Sono stata lì a fissarlo per un po’… incredula. Non di aver preso trenta in sé. Ma incredula che, la prima cosa che mi sia venuta in mente fosse tutto ciò che avevo sacrificato per guadagnarlo e quanto ancora avrei dovuto sacrificare per mantenere una media simile sul lungo termine.
Quello è stato il primo momento dove ho dovuto fare i conti con un bivio che mi ha ripetutamente messa alla prova per il resto della mia carriera universitaria: il compromesso tra crescita personale e perfezione accademica (anzi, perfezionismo). E la mia risposta a questa domanda è sempre stata la stessa: e se io non volessi scegliere? Perché volere successo accademico e una vita piena deve essere una scelta mutualmente esclusiva? Non è un diritto pretendere entrambi da se stessi? E immaginate se le istituzioni, il sistema scolastico e universitario, rendessero le due dimensioni conciliabili.
Poco più di un anno dopo, sono qui in Belgio per un Erasmus lungo un anno. Qui mi sono resa conto di quanto le mie paure non siano legate a un tratto della mià personalità, ma di quanto siano culturalmente condizionate. Non ho mai sentito nessuno dei miei amici Belgi temere di prendere un voto più basso delle aspettative. Avere 10/20 è sistematicamente celebrato. Ovunque si guardi, si vede ora un’associazione universitaria, ora un kot à projet, un’organizzazione studentesca, e si va avanti fino a non riuscire più a contarle. In questo consiste la vita studentesca belga tra capacità di team-work e spirito d’iniziativa.
E la questione diventa ancora più rilevante se pensiamo che siamo in pieno il European Year of Skills.
Immaginate se le nozioni universitarie acquisite in una torre d’avorio avessero in università lo stesso peso di competenze sviluppate al di fuori? Immaginate se nelle università italiane, lo sviluppo dell’empatia, della leadership, dell’asserività e ella negoziazione valessero CFU? Immaginate se fosse richiesto, a prescindere dall’indirizzo di studio, un esame di creatività per accedere al diploma? Immaginate se esistessero delle idoneità di gestione del conflitto?
Oggi un posto così esiste, un posto che concilia l’istruzione dello studente e la crescita della persona. Che dall’aut-aut accetta e incoraggia l’et-et. Ed è un’istituzione a cui sarò per sempre grata: la mia residenza universitaria di provenienza, come tutte le altre di cui non ho avuto l’opportunità di fare esperienza. Ma nella vita è importante sognare (a pensarci, anche quella dovrebbe essere una soft skill). E non sarebbe bellissimo pensare di poter estendere un privilegio simile anche a chi non risiede in un collegio universitario?
E allora nel mio piccolo, mi piacerebbe sfruttare l’opportunità che mi è stata data di parlare in questa sede, per invitare tutti i policy makers qui presenti, a pensare ai vostri piccoli sé. Ai quei ragazzi che magari un po’ impauriti, magari tanto entusiasti, si lasciavano alle spalle il liceo… che cosa avrebbero voluto loro dall’università? Qual sarebbe stata l’università dei loro sogni? Un sogno di ieri fa sempre in tempo a diventare il futuro di domani. D’altronde, anche sognare è una soft skill…
Veronica Alessio, studentessa della Residenza Tovini di Roma del Collegio Mazza